TRIBUNALE DI CATANIA Sezione III GIUDICE MONOCRATICO Il Giudice, nell'ambito del procedimento penale contro Navarria Giuseppe, Navarria Francesco, Stancanelli Raffaele e Castiglione Giuseppe, citati a giudizio per rispondere, in concorso tra loro, del delitto previsto dall'art. 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), oltre che del delitto (teleologicamente connesso) di cui agli artt. 61 nn. 2 e 9, 340 c.p., come meglio specificato nelle imputazioni di cui all'allegato decreto; ai sensi dell'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, ha pronunziato la seguente; Ordinanza Il Tribunale di Catania in composizione monocratica, con ordinanza depositata il 28 settembre 2010, sollevava, su eccezione formulata dalla difesa, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 29, comma 5, in relazione al comma 6, della legge n. 81 del 1993, per ritenuta violazione dell'art. 3 della Costituzione, ponendo in evidenza l'irragionevolezza di una disposizione che mantiene rilevanza penale alla violazione del divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell'ambito delle elezioni amministrative, laddove la norma contenente la previsione di identico divieto in relazione all'elezione alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica, ha perso vigenza per intervenuta abrogazione. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 277 del 19 settembre 2011, dichiarava la manifesta inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale sollevata, rilevando, per un verso, la mancata esposizione di dati fattuali concreti, necessari a consentire alla Corte la verifica della rilevanza della questione proposta in relazione alla fattispecie concreta e, per altro verso, l'ambiguita' del petitum, in riferimento al tipo di pronuncia auspicata con l'invocata declaratoria di illegittimita'. Gli atti venivano restituiti, pertanto, al giudice a quo per la prosecuzione del giudizio, nel corso del quale l'attivita' istruttoria, via via espletata, veniva rinnovata, in ragione dei mutamenti dell'organo giudicante verificatisi durante la trattazione del procedimento. Giunto il giudizio innanzi a questo decidente, nella fase conclusiva, la difesa di Navarria Francesco, prima della discussione, ha inteso riproporre, come da articolata memoria depositata in atti, la gia' prospettata eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 29 comma 5, in relazione all'art. 6, della legge n. 81 del 1993, sollecitando, dunque, il Tribunale a rinnovare la rimessione della stessa alla Corte costituzionale, con sollecitazione a integrare l'ordinanza con la quale, in precedenza, si era censurata detta disposizione, di modo da sopperire alla carenze evidenziate dalla Corte nel pronunciamento di inammissibilita'. Gli altri difensori si sono associati alla richiesta. Tanto premesso, ritiene il giudice di condividere le doglianze formulate dalla difesa e di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 29, comma 5, in relazione al comma 6, della legge n. 81 del 1993, per ritenuta violazione dell'art. 3 della Costituzione, stante la sua rilevanza nel giudizio pendente e la non manifesta infondatezza. Avuto riguardo alla sussistenza del nesso di «rilevanza» tra la questione proposta e la fattispecie concreta oggetto di giudizio, e' sufficiente osservare che l'imputazione elevata nei confronti degli odierni imputati concerne la violazione del divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell'ambito delle elezioni amministrative, commessa in occasione delle elezioni del Sindaco del Comune Catania, del Presidente della Provincia e del Consiglio comunale, indette per i giorni del 15 e 16 giugno 2008. In particolare, a Navarria Giuseppe si contesta di essersi fatto promotore e organizzatore, nella sua qualita' di Direttore generale dell'Azienda (e quindi organo rappresentativo dell'ente), di due incontri, svoltisi il 5 giugno 2008, nei locali del predetto plesso ospedaliero, finalizzati a consentire ai coimputati (a vario titolo candidati alle imminenti elezioni e tutti appartenenti a una medesima area politica) di esporre agli astanti, opportunamente invitati, il proprio programma elettorale. Il predetto avrebbe, quindi, messo a disposizione due sale (nella veste ufficiale di rappresentante dell'ente), per poi convocare, avvalendosi della propria visibilita' e dei propri poteri comunicativi, in orario di lavoro, il personale dipendente della struttura sanitaria, affinche' prendessero parte alla conferenza tenuta dai politici candidati. Ai coimputati Navarria Francesco (figlio del predetto direttore generale Navarria Giuseppe e candidato al Consiglio Comunale di Catania), Stancanelli Raffaele (candidato alla carica di Sindaco del Comune di Catania) e Castiglione Giuseppe (candidato alla presidenza della provincia di Catania), si contesta il concorso (quali determinatoci e/o istigatori) nella condotta addebitata a Navarria Giuseppe, avendo gli stessi partecipato attivamente a detti convegni, impegnandosi ognuno di costoro, in dette circostanze, in attivita' palesemente propagandistica elettorale, a favore proprio e della lista di appartenenza, nell'ovvio intento di acquisire consensi nelle imminenti elezioni amministrative. Ebbene, lungi dal voler, in questa sede, operare anticipazioni di giudizio, con riferimento alle responsabilita' dei singoli imputati, preme tuttavia osservare che i fatti, come confermati dalle acquisite emergenze processuali, impongono di ritenere sussistenti i presupposti oggettivi e soggettivi per la concreta applicabilita' al caso in esame della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 29, comma 6 della legge 25 marzo 1993 (inserita nel testo disciplinante l'elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), che prescrive un generico divieto, in periodo prossimo alle consultazioni elettorali, alle pubbliche amministrazioni (da intendersi in senso istituzionale e ricomprendenti, oltre a quelle coinvolte direttamente dalle elezioni, anche le altre pubbliche amministrazioni, nonche', gli enti, istituti, aziende dipendenti dagli enti territoriali), di veicolare messaggi propagandistici di natura politica, con qualsiasi mezzo realizzate, utilizzando gli strumenti di cui dispongono, che possono peraltro avere l'effetto di avvantaggiare una parte politica, alterando il principio della par condicio. Certo e', infatti, che Navania Giuseppe, organo rappresentativo di una «pubblica amministrazione» (tale essendo l'azienda sanitaria, da annoverarsi, a mente dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, tra le amministrazioni pubbliche), avvalendosi delle strutture e del personale dell'ente, in periodo prossimo alla data fissata per le competizioni elettorali (ovvero appena dieci giorni prima), organizzava un'iniziativa con valenza palesemente propagandistica e di carattere non neutrale, finalizzata a consentire l'esposizione del programma elettorale a tre candidati di una ben determinata area politica (Navarria Francesco, Stancanelli Raffaele e Castiglione Giuseppe), i quali effettivamente vi prendevano parte, fornendo, attraverso comunicazioni propagandistiche, precise indicazioni di voto ai numerosi elettori presenti alla conferenza dai suddetti tenuta. Da quanto esposto deriva la sicura e attuale incidenza della questione dedotta al procedimento in esame, atteso che, nell'ipotesi di condanna, la sanzione da irrogare andrebbe definita nell'ambito della cornice edittale di cui alla citata fattispecie incriminatrice che prevede la pena della multa da un milione a cinquanta milioni di lire. L'accoglimento da patte della Consulta della questione prospettata comporterebbe, invece, una pronuncia assolutoria per non essere piu' il fatto previsto dalla legge come reato. Tanto osservato in merito alla rilevanza della questione sollevata nel giudizio pendente, questo giudice ritiene, altresi', che non sia manifestamente infondata la delineata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 29, comma 5, in relazione al comma 6, della legge n. 81 del 1993, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della irragionevolezza e della disparita' di trattamento di identiche situazioni cui da' luogo, giacche', esaminando il complessivo quadro normativa di riferimento, balza all'evidenza, per un verso, che il legislatore ha riservato trattamenti differenziati a situazioni del tutto omologhe e, per altro verso, che la previsione della sanzione penale in materia elettorale di cui alla norma oggetto di censura, nel panorama degli illeciti in materia elettorale, rappresenta un'ipotesi davvero residuale. Sotto il primo versante, basti osservare che l'art. 29 della legge 25 marzo 1993 (disciplinante l'elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), qui oggetto di censura, prevede al comma 5, l'irrogazione della pena della multa da lire un milione a lire cinquanta milioni per «chiunque» contravviene al divieto sancito al successivo comma 6, la' dove recita «e' fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attivita' di propaganda di qualsiasi genere, ancorche' inerente alla loro attivita' istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l'inizio della campagna elettorale e per la durata della stessa». Il contenuto di detta disposizione era stato dal legislatore trasfuso, con formulazione lessicalmente identica (fatta eccezione nella parte in cui prevedeva una deroga, sancendo «Non rientrano nel divieto del presente articolo le attivita' di comunicazione istituzionale indispensabili per l'efficace assolvimento delle finzioni proprie delle amministrazioni pubbliche»), nell'art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515, la quale intervenuta a disciplinare le campagne elettorali per l'elezioni politiche alla Camera dei Deputati e al Senato, operando un ampio intervento sul versante della decriminalizzazione, aveva omesso di estendere la depenalizzazione a detta fattispecie (al comma 18 di detto articolo era testualmente previsto «il comma 5 dell'art. 29 della legge 25 marzo 1993, n. 81», e' sostituito dal seguente: «In caso di inosservanza delle norme di cui al cornuta 1 e delle prescrizioni delle autorita' di vigilanza si applicano le norme vigenti in materia per le elezioni alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica. Chiunque contravviene alle restanti norme di cui al presente articolo e' punito con la multa da L. 1.000.000 a L. 50.000.000»). Senonche', successivamente, la legge 22 febbraio 2000, n. 28, dettando una nuova regolamentazione in materia di parita' di accesso ai mezzi di informazione nel periodo che precede le elezioni al Parlamento europeo, le elezioni politiche, regionali e referendarie, nel disporre all'art. 13 l'espressa abrogazione del dianzi citato art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (senza formulare analoga abrogazione in relazione all'art. 29, comma 6 della legge n. 81 del 25 marzo 1993), ha introdotto una nuova disciplina delle comunicazioni istituzionali all'art. 9 (che testualmente recita «Dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto e' fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attivita' di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l'efficace assolvimento delle proprie funzioni»). La norma in questione, benche' imponga un divieto del tutto sovrapponibile a quello previsto dal suddetto art. 5, differenziandosi solo nella parte relativa all'arco temporale di operativita' del divieto in questione (non piu' fisso ma variabile, in quanto rapportato all'intervallo intercorrente tra la convocazione dei comizi elettorali e la chiusura delle operazioni di voto), rappresenta, a ben vedere, un precetto sprovvisto di sanzioni specifiche, in quanto il successivo art. 10, rubricato «provvedimenti e sanzioni», disciplina, in generale, le violazioni alla legge n. 28/2000, indicando la procedura per rilevarle ed i provvedimenti riparatori di competenza dell'Autorita' per le garanzie nelle comunicazioni, senza indicare una specifica sanzione per la violazione delle disposizioni contenute nell'art. 9 della medesima legge. E' di immediata evidenza, dunque, la disimmetria di trattamento, a fronte di condotte del tutto analoghe, che hanno quale unico elemento specializzante lo specifico contesto in cui vengono poste in essere (a seconda che siano consultazioni a livello locale o a livello ragionale e nazionale), a cui non sembra potersi riconnettere una diversita' di ratio tale da giustificare la singolarita' della disciplina sanzionatoria prevista nel caso di violazione dell'obbligo stabilito dal comma 6 dell'art. 29, riferibile alla sola ipotesi di consultazioni amministrative. Tale sperequazione di trattamento giuridico, rispetto a violazioni di precetti dal contenuto assimilabile, che risulta confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, non pare potersi plausibilmente giustificare facendo leva su un presunto diverso grado di offensivita' delle condotte, determinabile a seconda della dimensione dell'ambito territoriale in cui si svolge la competizione elettorale. D'altra parte, se la ragione giustificatrice posta a fondamento del divieto di svolgimento da parte dalle pubbliche amministrazioni di propaganda istituzionale in periodo elettorale (in applicazione concreta del principio di imparzialita' dell'agire amministrativo nel periodo immediatamente precedente la consultazione elettorale) e' quella volta a scongiurare il rischio di attivita' propagandistiche ad opera di amministrazioni pubbliche, dirette a sostenere liste o candidati impegnati nella competizione elettorale, che possono avere l'effetto di interferire con le scelte elettorali, e' incontestabile che tale esigenza di preservare l'imparzialita', la genuinita' del confronto elettorale assume identica valenza, tanto con riferimento alle elezioni politiche, quanto a quelle locali. La prospettata diversita' per non essere qualificata come irragionevole, dovrebbe dunque fondarsi su considerazioni legate al diverso livello di attitudine lesiva di ognuna delle condotte, in relazione alla pregnanza del bene tutelato. Ora, poiche' la violazione della condotta descritta nella norma censurata, strutturata come illecito penale, non si presta ad un apprezzamento di maggiore offensivita' per l'interesse protetto o di piu' accentuato disvalore, rispetto a quelle altre situazioni poste a raffronto (ovvero a quelle previste dall'art. 9 legge 22 febbraio 2000, n. 28, che rappresenta la norma da assumere come termine di comparazione, vale a dire il cosiddetto «tertium comparationis»), caratterizzate da coincidenza di bene protetto e di condotta, ma pur tuttavia depenalizzate, ne discende, ictu oculi, che la configurazione della fattispecie criminosa prevista al comma 6, dell'art. 29 della legge n. 81/1993, a cui consegue la previsione della sanzione penale, si atteggia, nel sistema normativo delineato, come elemento di ingiustificabile disarmonia e irrazionalita' (suscettibile, peraltro, di possibili effetti distonici e difficolta' applicative nelle ipotesi di contemporaneo svolgimento di campagne elettorali afferenti a differenti forme di consultazioni). L'opzione legislativa di disciplinare in modo differenziato, sul piano sanzionatorio, analoghe condotte, risulta, quindi, contrastante con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'arbitrarieta' e della manifesta irragionevolezza e pare, altresi', contrapporsi a quel trend di omogeneita' a cui sembra essersi ispirato, a partire da un certo momento, il legislatore nel disciplinare la materia della propaganda elettorale e che e' stato evidenziato dalla stessa Corte costituzionale, la' dove ha affermato che tale materia «e' stata da tempo caratterizzata, a partire dalla legge n. 212 del 1956 per arrivare alla legge 22 febbraio 2000, n. 28, da una disciplina sostanzialmente applicabile a qualsiasi tipo di competizione elettorale, in base ad un criterio di omogeneita', non derogato dalle modificazioni introdotte dalla legge 24 aprile 1975, n. 130» (cfr. Corte costituzionale, sentenza del 25 luglio 2001, n. 287, con la quale e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale l'art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 nella parte in cui puniva il fatto previsto dal comma 3 con la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni, anziche' con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni). Tanto piu' che il mantenimento della configurazione in chiave incriminatrice della violazione del precetto relativo al divieto di propaganda istituzionale nelle elezioni locali, si pone oramai come una singolare eccezione, rimasta inalterata, a fronte della larga depenalizzazione operata nei confronti delle misure punitive ricollegate all'inosservanza di gran parte dei precetti in materia. Profilo, quest'ultimo, anch'esso messo in risalto dalla stessa giurisprudenza costituzionale e sottolineato nella sentenza citata, nella misura in cui si e' rilevato che, nel disciplinare le campagne elettorali per le elezioni politiche il legislatore ha operato «un ampio intervento sul versante della decriminalizzazione che ha riguardato figure di reati in materia di propaganda elettorale gia' previste dalla legge n. 212 del 1956». La Corte, a tal proposito, ha fatto richiamo alle osservazioni gia' espresse in seno alla sentenza n. 52 del 1996, con la quale era stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 17, della legge 10 dicembre 1993, n. 515, nella parte in cui puniva con l'arresto e l'ammenda il fatto previsto dall'art. 7 della legge 24 aprile 1975, n. 130 (Modifiche alla disciplina della propaganda elettorale ed alle norme per la presentazione delle candidature e delle liste dei candidati nonche' dei contrassegni nelle elezioni politiche, regionali, provinciali e comunali), laddove non aveva mancato di rimarcare che in un contesto di complessiva decriminalizzazione, era rimasta in vigore - «per una probabile dimenticanza del legislatore» - la previsione della sanzione penale per la menzionata fattispecie. In definitiva, va ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 29, comma 5, in relazione al successivo colma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 e, percio', rimettibile al vaglio di legittimita' costituzionale della Consulta, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, invocandosi una pronuncia caducatoria della norma censurata (nella parte in cui prevede l'irrogazione di una sanzione in caso di inosservanza), in una prospettiva di uniformita' normativa, rispetto a previsioni con carattere omogeneo e depenalizzate, pena l'arbitrarieta' di quelle che ricevono un trattamento differenziato.